"Faciliter l'accès à toutes littératures européennes: le problème des langues moins répandues"
Ippolita Avalli
Sono onorata di essere stata invitata a parlare, come scrittrice italiana ed europea sul tema di enorme rilevanza, l'accesso e l'insegnamento delle letterature europee, soprattutto di quelle meno diffuse.
Nelle sue svariate forme, la letteratura crea un mondo immaginario capace di interagire con il mondo reale, ci permette di conoscere più da vicino la cultura particolare di cui è l'espressione, di fare esperienza di esistenze sconosciute che avvengono altrove, diverse dalla nostra. Flaubert diceva che se uno scrittore parte con l'idea di fare un'opera universale non combina nulla. Uno scrittore deve partire da sé. Quanto più saprà dare vita al suo particolare specifico umano e culturale, tanto più raggiungerà l'altro nella sua specificità e potrà dirsi universale.
Per questo sono convinta che dobbiamo creare i presupposti per accedere in modo più facile e familiare, sulle rispettive letterature nazionali, non solo per accrescere il potenziale e le capacità individuali, ma anche per sviluppare maggiormente una comune identità culturale europea.
Letteratura e lingua non sono la stessa cosa, anche se non si può parlare dell'una a prescindere dall'altra. Sul versante della lingua, assistiamo da tempo a un processo che suona come un campanello d'allarme e deve farci riflettere.
Pragmatismo, scambi commerciali, tecnologia, facilità negli spostamenti e nell'informazione, hanno prodotto un linguaggio ibrido, un angloamericano appena sufficiente a garantire le procedure, che rischia di mettere all'angolo e far precipitare in un ambito minoritario tutti gli altri idiomi europei. Nato negli aeroporti, dove la gente si incontra per caso e solo per qualche ora condivide un destino comune, sta velocemente espandendosi attraverso Internet e la musica. Soprattutto i giovani lo hanno adottato in massa perché suona familiare, agile, rassicura, consente un controllo benché della comunicazione, e preserva dall'angoscia di mandare segnali contradditori. Si può chiedere e dare informazioni senza vergognarsi se non si parla bene, né avere paura delle risposte. In un certo senso si può già definire una lingua, e poiché sta costruendo modelli propri, non passerà molto che potrà produrre una sua letteratura.
La spinta del processo in corso parte dal basso ed è fortissima, sarebbe insensato, politicamente e storicamente sbagliato e fallimentare cercare di fermarlo. E perché poi dovremmo cercare di fermarlo? La sua forza travolgente nasce dal desiderio legittimo di capirsi, di scambiare alla pari, di sentirsi parte attiva e integrante di una comunità, e vediamo bene come la comunicazione ha trasformato qualitativamente il rapporto con il sapere perché quando la quantità supera una certa misura diventa qualità.
Se parlare una lingua comune è un fatto di enorme importanza politica, l'ipotesi dell'avvento di una lingua unica, per forza di cose egemone, propone uno scenario inimmaginabile dal punto di vista strettamente culturale. Quali saranno le conseguenze, gli assetti futuri, cosa resterà e cosa sarà modificato?
Forse sarà inevitabile, può darsi che in futuro nel mondo non si parleranno che tre, quattro lingue (da tempo un autore tradotto in inglese vede moltiplicarsi il numero dei suoi lettori e salire le sue quotazioni), ma che le nostre lingue mantengano vita e dignità molto dipenderà dalle politiche che saremo in grado di avviare fin da oggi.
Per non essere travolti dal processo in atto, potenziamo al massimo lo studio delle lingue e letterature europee. L'educazione qui gioca un ruolo fondamentale. Bisogna partire presto, da subito, cominciare dalla scuola, rendere i nostri figli bilingue in età infantile, vanno bene computer, Nintendo e Play Station, ma facciamo anche in modo che leggano favole e storie di tutte le letterature europee. Una sola strofa di poesia può aprire dei mondi. Creiamo in loro una curiosità, un interesse, quella vicinanza che dà il senso della familiarità e dell'appartenenza. Crescendo, ormai padroni degli strumenti necessari, i nostri ragazzi potranno apprezzare e scoprire con piacere gli altri Paesi dell'Unione. Non aspettiamo che siano liceali, come succede adesso, per dar loro la possibilità di studiare in un Paese diverso dal proprio. E, non lo si raccomanderà mai abbastanza, educhiamoli alla lettura. La lettura è un piacere oltre che una necessità, un momento di intimità con se stessi, per parlare e scrivere bene bisogna leggere, e comunicare con proprietà di linguaggio dà soddisfazione, oltre a rendere più competitivi nel mondo del lavoro.
Come può venirci in aiuto la letteratura? Chi scrive mette qualcosa dove altrimenti c'è un vuoto. Un romanzo, un racconto, non sono solo la rappresentazione verosimile della realtà che lo ha ispirato, ma una struttura vera e propria, a sé stante, un modello di esempio di vita e di comportamento. Il bacino delle letterature dei paesi dell'Unione è ricco, ricchissimo di questi modelli di vita, la produzione artistica dei suoi autori è un capitale immenso che può e deve fare la differenza.
Vorrei dire due parole sulla situazione italiana.
Su
PartBase, una delle principali pagine istituzionali del sito web ufficiale dell’Unione, dedicata alla Piattaforma Europea dei programmi di ricerca dei partner comunitari, le lingue che dispongono di un link attivo sono 7, inglese, francese, tedesco e spagnolo, con l'aggiunta del finlandese, del danese e dell'olandese, ma quello italiano non è ancora attivo, come quello portoghese, purtroppo. Questa è una mancanza nostra, di noi italiani, e approfitto di questa sede prestigiosa per lanciare un'esortazione alla classe politica del mio Paese affinché si lasci al più presto alle spalle le beghe interne e approvi quelle riforme che ci metteranno finalmente al passo con l'Europa. Oltre a discutere sulla sicurezza, sul welfare e la riforma del sistema elettorale, se adottare o meno il modello spagnolo o tedesco, dovremmo ricordare sempre e fare in modo che i giovani lo abbiano ben presente, che non possiamo sapere dove andiamo se dimentichiamo le nostre radici, la nostra storia. E' quello che siamo stati che ci fa quelli che siamo. Nessuno da noi dubita della grandezza del nostro patrimonio linguistico e letterario, ma non basta credere o pensare, se poi non si agisce di conseguenza.
Nel sud dell'Italia, a Palermo, con la scuola siciliana è nata la poesia moderna, con Giotto la prospettiva, il codice romano è usato ancora oggi, in italiano è scritto uno dei più grandi, se non il più grande, poema occidentale, la Divina Commedia, e il Rinascimento ha rivoluzionato la concezione pittorica. L'Italia possiede il 65% delle opere d'arte del mondo, una fiorente tradizione operistica, tanto che per laurearsi nei conservatori negli Stati Uniti c'è l'obbligo di studiare l'italiano. Eppure, nell'immaginario collettivo siamo il Paese della pizza, della moda, della Ferrari, dei mondiali di calcio, del Vaticano, delle vacanze e… della mafia. Fa male sapere che, malgrado le statistiche confermino che la domanda dell'insegnamento della nostra lingua è in aumento un po' dappertutto, a Firenze come in altre città italiane le scuole di lingua vengono chiuse nell'indifferenza delle Istituzioni.
E che dire di come trattiamo i nostri traduttori? Diceva Montale che per tradurre poesia bisogna essere poeti. Abbiamo ottimi traduttori ma sono pochi perché lo studio delle lingue non è incoraggiato e li trattiamo male, con una paga da fame, mentre chi si fa mediatore di senso gioca un ruolo fondamentale nella struttura di un testo, si assume un'enorme responsabilità, e andrebbe doppiamente sostenuto e valorizzato.
Dai lavori di questa giornata sarebbe opportuno che uscisse un programma che si prenda cura delle biodiversità delle letterature e delle lingue europee, soprattutto di quelle più deboli, perché meno diffuse. Dobbiamo elaborare strategie nuove e avere la forza e l'autorevolezza di farle approvare in sede istituzionale. Quando leggo un autore straniero mi rammarico sempre di non trovare il testo originale a fronte. Lo si fa con la poesia, perché non farlo anche con i romanzi e i saggi? Basterebbe anche il primo capitolo a dare il sapore, il profumo, un po' come succede quando in un viaggio facciamo delle foto su cui costruiamo affetti, memorie, stimoli che ci fanno desiderare di tornare. Se, come dice Cioran, una lingua la si abita, mi piace pensare alle letterature europee come a tante case, ognuna con il proprio carattere, la propria forma e specificità, che sorgono e prosperano nella vallata chiamata Europa e che gli uomini che le abitano abbiano in tasca le chiavi di tutte.
mercoledì 4 febbraio 2009
lunedì 2 febbraio 2009
La situazione negli Stati Uniti
La nostra lingua ha sconfitto secolari stereotipi offensivi
Parlano Simone Marchesi e Edoardo Lebano
Prendiamo a caso qualche perla dai giornali americani. "Non c'è mai stata, da quando New York venne fondata, una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati come gli italiani meridionali" (New York Times, 5 marzo 1882). "Questi spioni e vigliacchi siciliani, discendenti di banditi e assassini, che hanno portato in questo paese gli istituti dei fuorilegge, le pratiche degli sgozzatori, l'omertà delle società del loro paese, sono per noi un flagello senza remissione" (New York Times, 12 marzo 1891). "C'è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati. Questi, da bambini, vengono esibiti dai loro genitori o parenti per attirare la pietà e l'elemosina dei passanti". (Leslie's Illustrated, 23 marzo 1901). "Si suppone che l'italiano è un grande criminale. L'Italia è prima in Europa per i suoi crimini violenti" (New York Times, 14 maggio 1909). "Non abbiamo bisogno in questo paese dell'uomo con la zappa, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello" (North American Revue, maggio 1925).
L'Italic Studies Institute di New York ha esaminato un paio di anni fa oltre mille pellicole girate a Hollywood dal 1928 in poi in cui ci sono personaggi o scene riguardanti gli italiani. Solo il 27 per cento dei film rimanda un'immagine positiva; per il restante 73 per cento gli italiani sono criminali, anzitutto, e poi rozzi, buffoni, stupidi e bigotti. Se oggi il New York Times non si sognerebbe di scrivere (si spera) quello che scriveva un secolo fa, nell'immaginario collettivo degli americani è rimasto a lungo lo stereotipo negativo dell'immigrato italiano. Lo dimostra il cinema, che è lo specchio più fedele dell'immaginario collettivo. Qualche esempio: in "Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?", film del 1972 ambientato a Ischia, ci sono un untuoso direttore d'albergo, un cameriere siciliano ricattatore, i contadini complici che fanno sparire i cadaveri e l'immancabile cameriera meridionale con i baffi. E in "Harlem Nights" (1989) il corrottissimo sergente della polizia si chiama Phil Cantone, che non è un cognome scandinavo.
Parlano Simone Marchesi e Edoardo Lebano
Prendiamo a caso qualche perla dai giornali americani. "Non c'è mai stata, da quando New York venne fondata, una classe così bassa e ignorante tra gli immigrati come gli italiani meridionali" (New York Times, 5 marzo 1882). "Questi spioni e vigliacchi siciliani, discendenti di banditi e assassini, che hanno portato in questo paese gli istituti dei fuorilegge, le pratiche degli sgozzatori, l'omertà delle società del loro paese, sono per noi un flagello senza remissione" (New York Times, 12 marzo 1891). "C'è una gran quantità di malattie organiche in Italia e molte deformazioni, molti zoppi e ciechi, molti con gli occhi malati. Questi, da bambini, vengono esibiti dai loro genitori o parenti per attirare la pietà e l'elemosina dei passanti". (Leslie's Illustrated, 23 marzo 1901). "Si suppone che l'italiano è un grande criminale. L'Italia è prima in Europa per i suoi crimini violenti" (New York Times, 14 maggio 1909). "Non abbiamo bisogno in questo paese dell'uomo con la zappa, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello" (North American Revue, maggio 1925).
L'Italic Studies Institute di New York ha esaminato un paio di anni fa oltre mille pellicole girate a Hollywood dal 1928 in poi in cui ci sono personaggi o scene riguardanti gli italiani. Solo il 27 per cento dei film rimanda un'immagine positiva; per il restante 73 per cento gli italiani sono criminali, anzitutto, e poi rozzi, buffoni, stupidi e bigotti. Se oggi il New York Times non si sognerebbe di scrivere (si spera) quello che scriveva un secolo fa, nell'immaginario collettivo degli americani è rimasto a lungo lo stereotipo negativo dell'immigrato italiano. Lo dimostra il cinema, che è lo specchio più fedele dell'immaginario collettivo. Qualche esempio: in "Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?", film del 1972 ambientato a Ischia, ci sono un untuoso direttore d'albergo, un cameriere siciliano ricattatore, i contadini complici che fanno sparire i cadaveri e l'immancabile cameriera meridionale con i baffi. E in "Harlem Nights" (1989) il corrottissimo sergente della polizia si chiama Phil Cantone, che non è un cognome scandinavo.
SEMPRE PIU' ITALIANO NEL MONDO
La nostra lingua tra le prime cinque più studiate.
di ANTONIO MAGLIO
Nel 1995 gli studenti iscritti ai corsi di lingua italiana all'estero erano 33.065, nel Duemila sono saliti a 45.699 (+38,2 per cento); sempre all'estero, i corsi organizzati nel 1995 erano 2.346 con l'impiego di 628 insegnanti; nel Duemila sono stati 3.684 (+57 per cento) con 686 inegnanti (+8,4 per cento). I dati sono contenuti nell'indagine "Italiano 2000" che Tullio De Mauro, uno dei più autorevoli studiosi di linguistica italiana (è stato anche ministro della Pubblica Istruzione), ha condotto per conto del Ministero degli Esteri sulle motivazioni che spingono gli stranieri a studiare la nostra lingua. Da quell'indagine, che De Mauro ha realizzato con un gruppo di ricerca dell'Università per Stranieri di Siena (Massimo Vedovelli, Monica Barni e Lorenzo Miraglia) risulta che l'italiano è tra le prime cinque lingue straniere più studiate nel mondo. È alle spalle dell'inarrivabile inglese e ancora lontano dal francese (che tuttavia è in netto declino), ma quasi alla pari con tedesco e spagnolo. È una notizia che ridà vigore a quanti fino a ieri intonavano il "De Profundis" per l'italiano, considerato vittima predestinata della globalizzazione, e che oggi si affrettano a capire il perché di tanta vitalità. Ma non è una notizia inaspettata. C'erano già delle indicazioni positive: quelle sul peso specifico della nostra lingua, per esempio, che risulta al 19° posto tra quelle parlate nel mondo mentre la popolazione italiana è appena l'1 per cento di quella mondiale; o i dati relativi alle pagine Internet, il 3 per cento delle quali è scritto in italiano, cifra considerevole se si pensa che la rete è nata da pochi anni ed è quasi tutta anglofona.
L'indagine "Italiano 2000" è stata condotta negli Istituti Italiani di Cultura, coinvolti per la raccolta dei dati relativi non solo alle proprie iniziative, ma anche a quelle degli altri organismi che gestiscono all'estero i corsi di italiano.
Sul finire degli anni Settanta, l'Istituto per l'Enciclopedia Italiana affidò a Ignazio Baldelli un'altra indagine per capire le motivazioni che spingevano gli stranieri a studiare la nostra lingua. Baldelli accertò che si trattava di motivazioni culturali: si studiava l'italiano perché è la lingua dell'arte, della musica, della grande letteratura, ma anche della scienza di Galilei.
L'indagine di Tullio De Mauro ha individuato nuove motivazioni: restano ancora quelle culturali - il che vuol dire che il legame tra l'italiano e la sua tradizione è sempre forte -, ma ce ne sono di nuove. Quasi uno studente su quattro, per esempio, frequenta i corsi di italiano per motivi di lavoro: con la conquista da parte del Made in Italy di mercati sempre più vasti, con l'aumento delle partnership tra imprese italiane e imprese straniere, conoscere la nostra lingua significa avere più ampie possibilità di lavoro perché la si può utilizzare nei processi economico-produttivi. In gergo si dice "spendibilità sociale di una lingua", e quella dell'italiano si rivela alta. Poi ci sono motivazioni collegate al turismo, al commercio, alla creatività delle nuove produzioni industriali (auto, moda, mobili), allo stile di vita, alla gastronomia. Infine ci sono le motivazioni personali: il partner italiano o di origine italiana. A tutto va aggiunta la preparazione degli insegnanti.
In sintesi - e utilizzando le parole di Tullio De Mauro - la conoscenza dell'italiano da parte di uno straniero "può essere un investimento culturale, come via per un diretto contatto con la nostra cultura; un investimento formativo, per coloro che intendono svolgere la propria formazione nel sistema scolastico e universitario italiano; un investimento economico, per chi decide di darsi una professionalità centrata sulla nostra lingua; un investimento in termini di lingua d'uso". È sempre De Mauro che spiega cosa ha portato alla riscoperta della nostra lingua: "Negli ultimi decenni è mutata l'immagine del nostro Paese fra gli stranieri. L'Italia ha conquistato un ruolo di rilievo (come sistema sociale, produttivo, culturale, linguistico) nel panorama internazionale". E continua: "Gran parte delle manifestazioni contemporanee della società e del sistema produttivo italiano sono apprezzate dagli stranieri perché sono capaci di continuare nell'oggi e nelle forme della modernità un sistema di valori che viene considerato come intrinseco dell'identità italiana". Insomma, il sistema-Italia è sempre più presente all'estero e conquista gli stranieri.
di ANTONIO MAGLIO
Nel 1995 gli studenti iscritti ai corsi di lingua italiana all'estero erano 33.065, nel Duemila sono saliti a 45.699 (+38,2 per cento); sempre all'estero, i corsi organizzati nel 1995 erano 2.346 con l'impiego di 628 insegnanti; nel Duemila sono stati 3.684 (+57 per cento) con 686 inegnanti (+8,4 per cento). I dati sono contenuti nell'indagine "Italiano 2000" che Tullio De Mauro, uno dei più autorevoli studiosi di linguistica italiana (è stato anche ministro della Pubblica Istruzione), ha condotto per conto del Ministero degli Esteri sulle motivazioni che spingono gli stranieri a studiare la nostra lingua. Da quell'indagine, che De Mauro ha realizzato con un gruppo di ricerca dell'Università per Stranieri di Siena (Massimo Vedovelli, Monica Barni e Lorenzo Miraglia) risulta che l'italiano è tra le prime cinque lingue straniere più studiate nel mondo. È alle spalle dell'inarrivabile inglese e ancora lontano dal francese (che tuttavia è in netto declino), ma quasi alla pari con tedesco e spagnolo. È una notizia che ridà vigore a quanti fino a ieri intonavano il "De Profundis" per l'italiano, considerato vittima predestinata della globalizzazione, e che oggi si affrettano a capire il perché di tanta vitalità. Ma non è una notizia inaspettata. C'erano già delle indicazioni positive: quelle sul peso specifico della nostra lingua, per esempio, che risulta al 19° posto tra quelle parlate nel mondo mentre la popolazione italiana è appena l'1 per cento di quella mondiale; o i dati relativi alle pagine Internet, il 3 per cento delle quali è scritto in italiano, cifra considerevole se si pensa che la rete è nata da pochi anni ed è quasi tutta anglofona.
L'indagine "Italiano 2000" è stata condotta negli Istituti Italiani di Cultura, coinvolti per la raccolta dei dati relativi non solo alle proprie iniziative, ma anche a quelle degli altri organismi che gestiscono all'estero i corsi di italiano.
Sul finire degli anni Settanta, l'Istituto per l'Enciclopedia Italiana affidò a Ignazio Baldelli un'altra indagine per capire le motivazioni che spingevano gli stranieri a studiare la nostra lingua. Baldelli accertò che si trattava di motivazioni culturali: si studiava l'italiano perché è la lingua dell'arte, della musica, della grande letteratura, ma anche della scienza di Galilei.
L'indagine di Tullio De Mauro ha individuato nuove motivazioni: restano ancora quelle culturali - il che vuol dire che il legame tra l'italiano e la sua tradizione è sempre forte -, ma ce ne sono di nuove. Quasi uno studente su quattro, per esempio, frequenta i corsi di italiano per motivi di lavoro: con la conquista da parte del Made in Italy di mercati sempre più vasti, con l'aumento delle partnership tra imprese italiane e imprese straniere, conoscere la nostra lingua significa avere più ampie possibilità di lavoro perché la si può utilizzare nei processi economico-produttivi. In gergo si dice "spendibilità sociale di una lingua", e quella dell'italiano si rivela alta. Poi ci sono motivazioni collegate al turismo, al commercio, alla creatività delle nuove produzioni industriali (auto, moda, mobili), allo stile di vita, alla gastronomia. Infine ci sono le motivazioni personali: il partner italiano o di origine italiana. A tutto va aggiunta la preparazione degli insegnanti.
In sintesi - e utilizzando le parole di Tullio De Mauro - la conoscenza dell'italiano da parte di uno straniero "può essere un investimento culturale, come via per un diretto contatto con la nostra cultura; un investimento formativo, per coloro che intendono svolgere la propria formazione nel sistema scolastico e universitario italiano; un investimento economico, per chi decide di darsi una professionalità centrata sulla nostra lingua; un investimento in termini di lingua d'uso". È sempre De Mauro che spiega cosa ha portato alla riscoperta della nostra lingua: "Negli ultimi decenni è mutata l'immagine del nostro Paese fra gli stranieri. L'Italia ha conquistato un ruolo di rilievo (come sistema sociale, produttivo, culturale, linguistico) nel panorama internazionale". E continua: "Gran parte delle manifestazioni contemporanee della società e del sistema produttivo italiano sono apprezzate dagli stranieri perché sono capaci di continuare nell'oggi e nelle forme della modernità un sistema di valori che viene considerato come intrinseco dell'identità italiana". Insomma, il sistema-Italia è sempre più presente all'estero e conquista gli stranieri.
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