Intervista a Luca Codignola, direttore del Centro di Ricerca in Studi Canadesi e Colombiani dell'Università di Genova
Strano destino quello della lingua italiana: mentre in Italia conosce contaminazioni e zone d'ombra, all'estero diventa sempre più "lingua d'uso" non solo perché è la lingua della grande cultura ma anche perché offre opportunità di lavoro. È lo stesso destino dell'Italia, di cui all'estero si ha un'immagine più luminosa di quella che hanno gli italiani che ci vivono.
Ma la lingua della globalizzazione sarà esclusivamente l'inglese? Non ne è convinto Luca Codignola: «Penso che in futuro», dice, «tutti useranno, come in parte già fanno, due lingue, se non addirittura tre: l'inglese, la loro lingua nazionale e magari la loro lingua locale. I livelli di comunicazione sono diversi e le tre realtà possono tranquillamente convivere: si parlerà in inglese per dialogare con l'estero, in italiano per farlo in Italia, e in friulano o in siciliano per mantenere la comunicazione locale. Peraltro è ciò che già accade. Naturalmente, tale multilinguismo comporterà per alcuni un impoverimento del lessico, nel senso che conosceranno meno parole anche se in tante lingue, per altri un arricchimento, nel senso che le varie lingue sono porte aperte su culture diverse ma parallele».
Luca Codignola, autore insieme a Luigi Bruti Liberati di una monumentale "Storia del Canada", è direttore del Centro di Ricerca in Studi Canadesi e Colombiani dell'Università di Genova e presidente dell'International Council for Canadian Studies. È stato recentemente "visiting professor" presso il Dipartimento di Italianistica della University of Toronto. Anche se la linguistica non è l'oggetto dei suoi interessi accademici, Codignola, proprio per le sue frequentazioni canadesi, è tuttavia in grado di giudicare il livello dell'insegnamento dell'italiano in Canada e di indicarne i punti forti e quelli deboli.
Dice Codignola: «I miei studenti canadesi che avevano studiato l'italiano mi hanno sorpreso per la qualità della lingua e per la relativa profondità della conoscenza della cultura del nostro Paese. Ciò depone a favore dei docenti di lingua e cultura italiane che operano in Canada. Gli studenti però riescono con difficoltà a stare dietro agli sviluppi recenti, tanto linguistici quanto culturali, che sono poi quelli che richiedono un rapporto diretto con i quotidiani, la televisione, la radio e la pubblicità, da sempre - più che la letteratura in senso stretto - specchio dell'attualità. I docenti dovrebbero fare molta attenzione a non rimanere essi stessi indietro in questi campi. Insomma, leggere più giornali e guardare più televisione, e forse prestare meno attenzione ai cosiddetti best sellers, la cui qualità è peraltro raramente apprezzabile».
Cosa dovrebbe fare, secondo lei, il governo italiano per promuovere l'insegnamento della nostra lingua all'estero? O è già sufficiente quello che fa?
«Diciamo anzitutto che la mia esperienza nel campo degli studi canadesi, e soprattutto la mia presidenza dell'International Council for Canadian Studies, mi hanno fatto apprezzare le potenzialità che avrebbe un'organizzazione di studiosi i quali, a livello mondiale, promuovano gli "studi italiani". L'international Council for Canadian Studies ha diramazioni in circa trenta Paesi e ha il compito di favorire lo studio, la ricerca, l'insegnamento, le pubblicazioni sul Canada in tutte le discipline accademiche. È una struttura di elevato spessore culturale, e allora mi chiedo: perché non crearne una analoga in Italia?».
Sta pensando a un Consiglio Internazionale per gli Studi Italiani?
«Esattamente. Avrebbe il compito di mettere a punto una strategia mondiale per l'italiano. E dovrebbe essere formato non soltanto da letterati ma da italianisti appartenenti a tutte le scienze umane. Dovrebbe essere un organismo al quale il governo italiano, tramite il Ministero degli Affari Esteri, dovrebbe fornire appoggio logistico, tramite i consolati, e finanziario. Ma la sua indipendenza e quella dei suoi progetti dovrebbero essere fuori discussione. Anni fa Alessandro Vattani, allora responsabile delle Relazioni Culturali della Farnesina, si era mostrato molto interessato all'idea, ma non so se i suoi successori al Ministero abbiano portato avanti il progetto. Naturalmente la lingua sarebbe parte integrante degli 'studi italiani'. Ma ciò detto, va precisata una cosa che ritengo importante...».
Che cosa?
«Che il Consiglio Internazionale per gli Studi Italiani dovrebbe essere formato soprattutto da italianisti all'estero, e che quelli italiani dovrebbero essere solo una delle componenti».
La riforma della Costituzione italiana in senso federalista attribuisce molti nuovi poteri alle Regioni, anche sul piano della promozione della cultura. Secondo lei, ciò è un bene o un male?
«Sono favorevole tanto alla riforma federalista quanto all'attuale progetto di cosiddetta "devoluzione". Anzi, credo che tale progetto dovrebbe essere ancora più incisivo».
Ma non crede che di questo passo l'unità nazionale vada a farsi benedire?
«Le dirò che trovo insensati gli allarmi sull'unità nazionale. Basta vedere l'esperienza del Canada, un Paese che resta unito e forte proprio perché le più estreme aspirazioni localistiche, che ritengo negative, trovano la loro mediazione a livello federale. È curioso come questo esempio venga costantemente ignorato in Italia. Perciò ritengo che in futuro le Regioni possano e debbano farsi carico anche della promozione culturale».
Per esempio?
«Per esempio, se la Regione Piemonte promuove le Langhe e Cesare Pavese, e spiega l'influenza della lingua piemontese sulla lingua italiana o quella della comunità meridionale degli anni Cinquanta sulla lingua piemontese, di fatto contribuisce a far conoscere la cultura dell'Italia tutta e della sua complessità. È logico che il governo centrale dovrebbe avere una funzione di coordinamento, non di antagonismo alle realtà regionali. Ancora una volta il Canada insegna: veda la promozione culturale portata avanti, in tempi di maggiori disponibilità finanziarie, da province come l'Alberta, l'Ontario, e soprattutto il Québec».
Secondo lei, gli insegnanti locali di italiano all'estero dovrebbero seguire dei corsi di qualificazione in Italia, o la loro preparazione è già completa?
«La necessità di seguire giornali, televisione, radio e pubblicità costringe gli insegnanti di italiano all'estero a recarsi regolarmente in Italia, e con ciò voglio dire almeno una volta all'anno, pena lo scollamento dalla lingua e dalla cultura reali. La lingua degli insegnanti di italiano in Canada, così come peraltro quella della televisione e dei giornali in lingua italiana, è vischiosa perché è sempre indietro rispetto a quella della Penisola. Oggi essa è un un po' una lingua "Anni Sessanta", se mi si consente l'espressione. Corretta, ma vecchia. Il fenomeno è noto e non è risolvibile. Ma soggiorni frequenti degli insegnanti in Italia possono ridurre questo gap e renderlo sempre più impercettibile. In un'epoca di viaggi relativamente facili, il contatto continuo è diventato possibile. Naturalmente, sarebbe anche bello che le scuole e le università canadesi si avvalessero in maniera regolare di docenti italiani, che magari potrebbero venire per brevi periodi, ma non meno di un mese, e non necessariamente tutti di provenienza italianistica».
Donato Santeramo è associate professor del Dipartimento di Spagnolo e di Italiano alla Queen's University di Kingston.
Il suo intervento sbigottì i partecipanti alla Preconferenza per il Nordamerica degli Italiani nel Mondo che si tenne a Toronto il 26 e il 27 ottobre del Duemila: «La sezione italiana del mio Dipartimento», annunciò, «ha registrato quest'anno un incremento di iscritti pari al 130 per cento. Considerando gli ultimi tre anni, l'incremento ha superato il duecento per cento».
Dice oggi Santeramo: «Quei dati erano interessanti non solo in termini percentuali, ma anche numerici. E vennero confermati nel primo semestre di quell'anno accademico quando 170 nuovi studenti si iscrissero al corso di Introduzione alla lingua italiana. Di quegli studenti solo il 30 per cento aveva origini italiane. Fu un successo determinato dai nuovi metodi didattici che introducemmo - si cercava non solo di parlare italiano ma di vivere all'italiana - e dalla grande disponibilità dei vertici dell'università».
Perché parla al passato, professore?
«Perché a causa dei tagli effettuati nelle università, alla Queen's University siamo tornati ai livelli degli anni precedenti, che erano davvero bassi. Un vero peccato. Oggi siamo costretti a ridurre i corsi di italiano, e tuttavia ci sono lunghissime liste d'attesa per le iscrizione alle lezioni per principianti. Quello della mancanza di fondi sta diventando un capestro per la didattica. Ma del resto stiamo assistendo al crepuscolo dello scopo originario delle università».
Cosa vuol dire?
«Le università, e non solo quelle canadesi, intendono il proprio ruolo esclusivamente in funzione della preparazione degli studenti a entrare nel mondo del lavoro. Perciò, i corsi universitari a carattere professionale - pensi a ingegneria, a economia - ricevono tutti i fondi di cui hanno bisogno. Di conseguenza, la laurea in italiano, ma non solo in italiano beninteso, che viene considerata non determinante nell'assicurare un lavoro, è diventata di serie B. Il problema vero è che il ruolo delle università non dovrebbe essere schiacciato sulla preparazione professionale degli studenti, ma dovrebbe comprendere l'ampliamento delle loro conoscenze; la loro crescita umana, insomma».
Chi dovrebbe sostenere e promuovere lo studio dell'Italiano: l'Italia o il Canada?
«Entrambi i Paesi. L'Italia perché, come ha accertato da ricerca di De Mauro, l'italiano è diventato lingua d'uso e quindi il suo sostegno avrebbe interessanti ritorni economici e di immagine per il Paese. Il Canada perché ospita una grande enclave italiana, perché punta a intensificare i rapporti economici e commerciali con l'Italia, perché il canadese è affascinato dal nostro Paese. Ma a mio avviso il sostegno dovrebbe essere indirizzato ai corsi di cultura e di letteratura italiane più che di lingua. Questi ultimi, specialmente quelli per principianti, scoppiano di salute, mentre gli altri stanno andando verso la chiusura per mancanza di fondi e quindi di studenti».
Come uscire da questo vicolo cieco, professore?
«Non lo so. Noi docenti, più che lanciare il grido d'allarme non possiamo fare. Ma anche se strillassimo contemporaneamente tutti insieme, dubito che le cose cambierebbero. Nella società di oggi l'unico imperativo è "make money", fare soldi, e tutti si affannano in questa direzione. Non resta che sperare nell'avvento di politici coraggiosi e lungimiranti, capaci di far capire alla gente che fare soldi non e l'unico scopo della vita».