giovedì 30 luglio 2009

Il destino della lingua italiana

Intervista a Luca Codignola, direttore del Centro di Ricerca in Studi Canadesi e Colombiani dell'Università di Genova


Strano destino quello della lingua italiana: mentre in Italia conosce contaminazioni e zone d'ombra, all'estero diventa sempre più "lingua d'uso" non solo perché è la lingua della grande cultura ma anche perché offre opportunità di lavoro. È lo stesso destino dell'Italia, di cui all'estero si ha un'immagine più luminosa di quella che hanno gli italiani che ci vivono.
Ma la lingua della globalizzazione sarà esclusivamente l'inglese? Non ne è convinto Luca Codignola: «Penso che in futuro», dice, «tutti useranno, come in parte già fanno, due lingue, se non addirittura tre: l'inglese, la loro lingua nazionale e magari la loro lingua locale. I livelli di comunicazione sono diversi e le tre realtà possono tranquillamente convivere: si parlerà in inglese per dialogare con l'estero, in italiano per farlo in Italia, e in friulano o in siciliano per mantenere la comunicazione locale. Peraltro è ciò che già accade. Naturalmente, tale multilinguismo comporterà per alcuni un impoverimento del lessico, nel senso che conosceranno meno parole anche se in tante lingue, per altri un arricchimento, nel senso che le varie lingue sono porte aperte su culture diverse ma parallele».

Luca Codignola, autore insieme a Luigi Bruti Liberati di una monumentale "Storia del Canada", è direttore del Centro di Ricerca in Studi Canadesi e Colombiani dell'Università di Genova e presidente dell'International Council for Canadian Studies. È stato recentemente "visiting professor" presso il Dipartimento di Italianistica della University of Toronto. Anche se la linguistica non è l'oggetto dei suoi interessi accademici, Codignola, proprio per le sue frequentazioni canadesi, è tuttavia in grado di giudicare il livello dell'insegnamento dell'italiano in Canada e di indicarne i punti forti e quelli deboli.
Dice Codignola: «I miei studenti canadesi che avevano studiato l'italiano mi hanno sorpreso per la qualità della lingua e per la relativa profondità della conoscenza della cultura del nostro Paese. Ciò depone a favore dei docenti di lingua e cultura italiane che operano in Canada. Gli studenti però riescono con difficoltà a stare dietro agli sviluppi recenti, tanto linguistici quanto culturali, che sono poi quelli che richiedono un rapporto diretto con i quotidiani, la televisione, la radio e la pubblicità, da sempre - più che la letteratura in senso stretto - specchio dell'attualità. I docenti dovrebbero fare molta attenzione a non rimanere essi stessi indietro in questi campi. Insomma, leggere più giornali e guardare più televisione, e forse prestare meno attenzione ai cosiddetti best sellers, la cui qualità è peraltro raramente apprezzabile».
Cosa dovrebbe fare, secondo lei, il governo italiano per promuovere l'insegnamento della nostra lingua all'estero? O è già sufficiente quello che fa?
«Diciamo anzitutto che la mia esperienza nel campo degli studi canadesi, e soprattutto la mia presidenza dell'International Council for Canadian Studies, mi hanno fatto apprezzare le potenzialità che avrebbe un'organizzazione di studiosi i quali, a livello mondiale, promuovano gli "studi italiani". L'international Council for Canadian Studies ha diramazioni in circa trenta Paesi e ha il compito di favorire lo studio, la ricerca, l'insegnamento, le pubblicazioni sul Canada in tutte le discipline accademiche. È una struttura di elevato spessore culturale, e allora mi chiedo: perché non crearne una analoga in Italia?».
Sta pensando a un Consiglio Internazionale per gli Studi Italiani?
«Esattamente. Avrebbe il compito di mettere a punto una strategia mondiale per l'italiano. E dovrebbe essere formato non soltanto da letterati ma da italianisti appartenenti a tutte le scienze umane. Dovrebbe essere un organismo al quale il governo italiano, tramite il Ministero degli Affari Esteri, dovrebbe fornire appoggio logistico, tramite i consolati, e finanziario. Ma la sua indipendenza e quella dei suoi progetti dovrebbero essere fuori discussione. Anni fa Alessandro Vattani, allora responsabile delle Relazioni Culturali della Farnesina, si era mostrato molto interessato all'idea, ma non so se i suoi successori al Ministero abbiano portato avanti il progetto. Naturalmente la lingua sarebbe parte integrante degli 'studi italiani'. Ma ciò detto, va precisata una cosa che ritengo importante...».
Che cosa?
«Che il Consiglio Internazionale per gli Studi Italiani dovrebbe essere formato soprattutto da italianisti all'estero, e che quelli italiani dovrebbero essere solo una delle componenti».
La riforma della Costituzione italiana in senso federalista attribuisce molti nuovi poteri alle Regioni, anche sul piano della promozione della cultura. Secondo lei, ciò è un bene o un male?
«Sono favorevole tanto alla riforma federalista quanto all'attuale progetto di cosiddetta "devoluzione". Anzi, credo che tale progetto dovrebbe essere ancora più incisivo».
Ma non crede che di questo passo l'unità nazionale vada a farsi benedire?
«Le dirò che trovo insensati gli allarmi sull'unità nazionale. Basta vedere l'esperienza del Canada, un Paese che resta unito e forte proprio perché le più estreme aspirazioni localistiche, che ritengo negative, trovano la loro mediazione a livello federale. È curioso come questo esempio venga costantemente ignorato in Italia. Perciò ritengo che in futuro le Regioni possano e debbano farsi carico anche della promozione culturale».
Per esempio?
«Per esempio, se la Regione Piemonte promuove le Langhe e Cesare Pavese, e spiega l'influenza della lingua piemontese sulla lingua italiana o quella della comunità meridionale degli anni Cinquanta sulla lingua piemontese, di fatto contribuisce a far conoscere la cultura dell'Italia tutta e della sua complessità. È logico che il governo centrale dovrebbe avere una funzione di coordinamento, non di antagonismo alle realtà regionali. Ancora una volta il Canada insegna: veda la promozione culturale portata avanti, in tempi di maggiori disponibilità finanziarie, da province come l'Alberta, l'Ontario, e soprattutto il Québec».
Secondo lei, gli insegnanti locali di italiano all'estero dovrebbero seguire dei corsi di qualificazione in Italia, o la loro preparazione è già completa?
«La necessità di seguire giornali, televisione, radio e pubblicità costringe gli insegnanti di italiano all'estero a recarsi regolarmente in Italia, e con ciò voglio dire almeno una volta all'anno, pena lo scollamento dalla lingua e dalla cultura reali. La lingua degli insegnanti di italiano in Canada, così come peraltro quella della televisione e dei giornali in lingua italiana, è vischiosa perché è sempre indietro rispetto a quella della Penisola. Oggi essa è un un po' una lingua "Anni Sessanta", se mi si consente l'espressione. Corretta, ma vecchia. Il fenomeno è noto e non è risolvibile. Ma soggiorni frequenti degli insegnanti in Italia possono ridurre questo gap e renderlo sempre più impercettibile. In un'epoca di viaggi relativamente facili, il contatto continuo è diventato possibile. Naturalmente, sarebbe anche bello che le scuole e le università canadesi si avvalessero in maniera regolare di docenti italiani, che magari potrebbero venire per brevi periodi, ma non meno di un mese, e non necessariamente tutti di provenienza italianistica».
Donato Santeramo è associate professor del Dipartimento di Spagnolo e di Italiano alla Queen's University di Kingston.
Il suo intervento sbigottì i partecipanti alla Preconferenza per il Nordamerica degli Italiani nel Mondo che si tenne a Toronto il 26 e il 27 ottobre del Duemila: «La sezione italiana del mio Dipartimento», annunciò, «ha registrato quest'anno un incremento di iscritti pari al 130 per cento. Considerando gli ultimi tre anni, l'incremento ha superato il duecento per cento».
Dice oggi Santeramo: «Quei dati erano interessanti non solo in termini percentuali, ma anche numerici. E vennero confermati nel primo semestre di quell'anno accademico quando 170 nuovi studenti si iscrissero al corso di Introduzione alla lingua italiana. Di quegli studenti solo il 30 per cento aveva origini italiane. Fu un successo determinato dai nuovi metodi didattici che introducemmo - si cercava non solo di parlare italiano ma di vivere all'italiana - e dalla grande disponibilità dei vertici dell'università».
Perché parla al passato, professore?
«Perché a causa dei tagli effettuati nelle università, alla Queen's University siamo tornati ai livelli degli anni precedenti, che erano davvero bassi. Un vero peccato. Oggi siamo costretti a ridurre i corsi di italiano, e tuttavia ci sono lunghissime liste d'attesa per le iscrizione alle lezioni per principianti. Quello della mancanza di fondi sta diventando un capestro per la didattica. Ma del resto stiamo assistendo al crepuscolo dello scopo originario delle università».
Cosa vuol dire?
«Le università, e non solo quelle canadesi, intendono il proprio ruolo esclusivamente in funzione della preparazione degli studenti a entrare nel mondo del lavoro. Perciò, i corsi universitari a carattere professionale - pensi a ingegneria, a economia - ricevono tutti i fondi di cui hanno bisogno. Di conseguenza, la laurea in italiano, ma non solo in italiano beninteso, che viene considerata non determinante nell'assicurare un lavoro, è diventata di serie B. Il problema vero è che il ruolo delle università non dovrebbe essere schiacciato sulla preparazione professionale degli studenti, ma dovrebbe comprendere l'ampliamento delle loro conoscenze; la loro crescita umana, insomma».
Chi dovrebbe sostenere e promuovere lo studio dell'Italiano: l'Italia o il Canada?
«Entrambi i Paesi. L'Italia perché, come ha accertato da ricerca di De Mauro, l'italiano è diventato lingua d'uso e quindi il suo sostegno avrebbe interessanti ritorni economici e di immagine per il Paese. Il Canada perché ospita una grande enclave italiana, perché punta a intensificare i rapporti economici e commerciali con l'Italia, perché il canadese è affascinato dal nostro Paese. Ma a mio avviso il sostegno dovrebbe essere indirizzato ai corsi di cultura e di letteratura italiane più che di lingua. Questi ultimi, specialmente quelli per principianti, scoppiano di salute, mentre gli altri stanno andando verso la chiusura per mancanza di fondi e quindi di studenti».
Come uscire da questo vicolo cieco, professore?
«Non lo so. Noi docenti, più che lanciare il grido d'allarme non possiamo fare. Ma anche se strillassimo contemporaneamente tutti insieme, dubito che le cose cambierebbero. Nella società di oggi l'unico imperativo è "make money", fare soldi, e tutti si affannano in questa direzione. Non resta che sperare nell'avvento di politici coraggiosi e lungimiranti, capaci di far capire alla gente che fare soldi non e l'unico scopo della vita».

8 commenti:

Controinfo ha detto...

Avrei dei commenti da fare. conosco poco la situazione del Canada ma conosco bene quella degli Stati Uniti dove vivo, e dovendo giudicare da cio' che so sull'insegnamento dell'italiano e la cultura italiana in generale i miei commenti farebbero scintille d'attrito con il compiacimento e le rosee previsioni del professore Codignola. Me ne astengo per non turbare la serenita' di questo blog

Roberto ha detto...

Mi fa piacere che tu abbia sottolineato l'atmosfera di questo blog, finalizzato al confronto delle numerose e differenti realtà dell'insegnamento della lingua italiana come LS e come L2, ma sempre all'insegna di un dialogo costruttivo e sereno. L'articolo del professor Codignola vuole stimolare la riflessione su alcuni aspetti e problematiche, in parte da me condivisi, riguardo alla situazione canadese, tuttavia essendo opinioni sono anche opinabili.

Controinfo ha detto...

Sarei alquanto sorpreso se dovessi scoprire che la situazione canadese e’ tanto migliore di quella statunitense, due paesi limitrofi, che nonostante siano divisi da un ideale confine geografico e da diversita’ politiche trascurabili e irrelevanti rispetto al tema della lingua italiana, condividono certamente radici analoghe della nascita del paese: emigrazione dall’Europa nel corso di qualche secolo ed emigrazione dal Sud america. Quindi tendo a generalizzare affidandomi alla mia esperienza americana, pronto a rivedere I miei errori se venissi messo al confronto di elementi che ignoro,considerato che non sono un addetto ai lavori.
In gioventu‘ sono venuto qui in Usa con borse di studio che prevedevano fra i miei doveri quello di insegnare italiano e quindi ho conosciuto professori universitari con cui potevo parlare italiano; riassumo la mia esperienza in breve, che certamente non puo’ essere descritta come quella di un addetto ai lavori, con competenze specifiche viste dall’interno ma piuttosto come quella di un osservatore.
Evito di nominare queste istituzioni accademiche molto prestigiose per ovvi motivi. Fu per me una sorpresa scoprire che l’equivalente, cosi per dire, di personaggi del calibro di Giancarlo Mazzacurati, ormai scomparso e che ho avuto il piacere di conoscere di persona, posso annoverare fra gli amici, e di ammirarne la facondia in diverse occasioni, equivalente nel senso di avere incarichi simili, potesse esprimersi con strafalcioni del tipo “ non fa senso” per dire che qualcosa e’ priva di senso o sbagliare il congiuntivo piu’ semplice. Ho in mente il chairman del dipartimento di italiano di una della piu prestigiose universita’ del mondo!
Medesima cosa ho dovuto ahime’ constatare almeno in un altra universita’ prestigiosa dove il chairman del dipartimento di italiano, aveva scritto una lettera in italiano per aiutare un collega insegnante di filosofia a contattare un istituzione italiana che lo aveva invitato a tenere un seminario. La lettera era cosi illeggible che dovetti ricorrere a qualche scusa per ottenere di poterla riscrivire ex novo.

Controinfo ha detto...

Le associazioni culturali italiane annoverano qualche professore compiacente che in gioventu’ ha studiato un po ’ ’La divina Commedia' e una geldra di personaggi ambigui, magari di origine italiana, con difficolta’ a esprimersi sia in italiano che inglese, che non hanno proprio nulla a che fare con la cultura italiana, che viene promossa in genere con l‘offerta di viaggi in Italia;viaggi organizzati a scopo di lucro sia dalle accademie che elargiscono credits per l’adesione, che dalle organizzazioni private.
Ma sono sbigottito nel leggere questa affermazione del professor Codignola: “ mentre in Italia conosce contaminazioni e zone d'ombra, all'estero diventa sempre più "lingua d'uso". Se per contaminazione il professore intende una naturale evoluzione della lingua, gli addetti ai lavori possono solo registrare queste modificazioni, le lingue nascono si evolvono e poi magari muoiono anche; e a me sembra invece che nelle sue parole vi sia una connotazione negativa, come se dovessimo rammaricarci che la lingua Italiana cambi!
In quanto alla purezza della lingua che invece sembrerebbe preservata all’estero, ho qualche perplessita’.
Dunque per anni ho frequentato le
chat italiane di Aol, dove la lingua italiana e’ massacrata con la disinvoltura con la quale si prepara un pasticcio culinario. Il 99% dei frequentatori scrive in maniera incomprensible, neologismi di antica data del tipo “ Come guardo? “ Per dire “ come sto” riferito all’apparenza fisica, in occasione di un abito o una pettinatura nuova, ad un uso libero della H in vari contesti.
C’e chi si lascia guidare dall’istinto e di solito sbaglia ponendo la ’h’ davanti alla preposizione ’ a’ e togliendola al verbo che diventa ‘a’, terza persona del verbo avere presente indicativo. Cosi si legge ’ vai ha casa cretino!” e per uniformita’ “ non a una vita’ traduzione dall’inglese di “ he hasn’t get a life”, che in italiano non significa nulla.
La cultura Italiana nelle accademie sembra esaurirsi allo studio di Dante, con qualche rara escursione nel futuro dove troviamo Giosue’ Carducci e Giovanni Pascoli. Qui nessuno sa nulla del 900 letterario italiano, l’avanguardia della fine del secolo, l’influenza di scrittori americani sulla produzione italiana di Cesare Pavese ed altri.
Tutto cio puo’ succedere a 500 metri dalla istituzione accademica dove Noam Chomsky ha rivoluzionato lo studio della linguistica con innovazioni pari solo alle idee di Newton nel campo della fisica nel 17esimo secolo.
Grzie per l'atttezione e scusate la tastiera, non ne ho una italiana.

Controinfo ha detto...

rileggendo ho trovato almeno 3 errori
1) 'he hasn't get a life' sbagliato; ecco la forma giusta 'he hasn't got a life'
2) Grazie per l'attenzione, e non quello che ho scritto nella fretta
scusatemi

Controinfo ha detto...

Caro Roberto,
se trovi i miei interventi non idonei non hai che da cancellarli e io mi guardero' dal farne altri. Mi rendo conto di essere insopportabile, tignoso, litigioso,arrogante.
Negli anni del declino della mia vita, esorcizzo le mie angosce senili trasferendomi nella scrittura e quindi scrivo a profusione, articoli in italiano per giornali, saggi di filosofia in inglese, lettere ad amici ed accademici per polemizzare e infine ho un blog mio dove ospito gente di estrazione diversa e ci divertiamo a ruota libera sia in inglese che in italiano; si chiama appunto controinfo.
A proposito di questo volevo chiederti se posso trasferire al mio blog il contenuto di questi miei interventi ai tuoi blogs citandone ovviamente la fonte.
Tuo
Bruno

Roberto ha detto...

Certamente puoi riportare i tuoi interventi nel tuo blog. Ti ringrazio per i tuoi esaustivi commenti e riflessioni a proposito dell'articolo preso in considerazione. Purtroppo non ho molto tempo per aggiornare il blog, ma vedo che l'intervista del prof. Codignola ha suscitato interessanti commenti. Personalmente non credo che la purezza della lingua sia preservata all'estero e nemmeno in patria, poiché è spesso influenzata da regionalismi, dagli accenti e dagli errori commessi proprio dagli insegnanti che la insegnano all'estero o in Italia. Tuttavia credo che in alcune università, penso agli Stati Uniti, la lingua italiana venga ancora apprezzata nella sua interezza e studiata nei suoi vari aspetti, linguistici e anche letterari.

Controinfo ha detto...

Vorrei fare delle considerazioni su una affermazione presente sia negli scritti di Roberto che in quelli del Professor Codignola. Entrambi sembrano preoccupati di ‘ contaminazioni… purezza della lingua e preservazione della lingua “. Esistono due approcci a vari ambiti della conoscenza, uno descrittivo e uno prescrittivo.
Ad esempio se io descrivo un opera d’arte nei suoi dettagli cromatici e spaziali sto operando una descrizione neutrale di quell’oggetto. Se invece mi soffermo su concetti di valori estetici di quel lavoro il mio intervento e’ prescrittivo.
Non credo che vi sia spazio per considerazioni di natura prescrittiva quando si studia una lingua. Come ho scritto in precedenza le lingue vanno intese come precipitato diacronico di attivita’ umane: nascono, crescono e muoiono anche, come il latino, il greco antico eccetera.
L’italiano si puo caratterizzare grosso modo come una lingua evolutasi dal latino, dal greco, in minima parte dall’arabo e in tempi meno remoti ha subito influenze dal francese, dal tedesco e dall’inglese, lingua certamente universale per le scienze. Cio’ e’ inevitabile se la lingua deve riflettere la storia di un popolo e ne e’ l’espressione di cambiamenti, mutamenti, avvenimenti nuovi. Se in italiano non esiste nulla che possa diventare l’etichetta di un tessuto di cui si ignorava l’esistenza prima di essere importato dagli arabi, ben venga la parola ’cotone’ la cui etimologia ha radici nella lingua araba, credo, e cosi via.
Queste considerazioni non sono indipendenti dalla critica che si puo’ fare all’idea che i dialetti e le lingue siano sistemi diversi. Non vi e’ nulla di scientifico in questa distinzione, fatta sulla base di una prescrizione arbitraria e convenzionale di cosa debba intendersi per lingua ufficiale. La lingua, prima ancora di essere studiata a scuola, e’
una caratteristica delle societa’ umane e il fatto che nessuno si sia preso la briga di codificare per iscritto la grammatica e il vocabolario di un cosiddetto dialetto, non puo’ certo costituire una base concreta per una distinzione fra la lingua e il dialetto.
Il problema si complica alla luce delle seguenti ulteriori considerazioni: puo’ accadere che nella stessa regione o addirittura nella stessa citta’, in quartieri diversi vi siano differenze lessicali all’interno di uno stesso ’dialetto’.
Se cio’ non bastasse, ognuno di noi parla una lingua che e’ peculiare all’individuo ( scelte di parole fra vari sinonimi, costruzioni sintattiche diverse, introduzione di neologismi che possono o meno avere un seguito nell’ambito della comunita’). Ad esempio qualcuno deve aver detto un bel giorno a qualcun altro ’sei fuso’ per analogia fra il motore ( che e’ soggetto a fondersi) di un auto, (tecnologia nata nel XX secolo - quindi l’espressione deve essere necessariamente recente) e il cervello umano come organo candidato alle funzioni mentali. L’espressione ha trovato un largo consenso nella comunita’ in cui nacque e ne ha varcato i limiti diventando un modo largamente usato per definire negativamente una persona con riferimento alle sue capacita’ intellettive.
Cio’ non toglie nulla ovviamente a quella disciplina che viene detta’ Stilistica’ all’interno della quale possiamo sbizzarrirci a formulare canoni di bello stile, privilegiando aspetti di una lingua rispetto ad altri.
Cio' detto va da se che se scriviamo 'ha' invece che 'a' e viceversa commettiamo errori.